Intessuta sulla “esercitata memoria degli analfabeti”, la storia di Antonio e di Sofia è una delle opere più riuscite di Nino Chiovini. Storia di persone, di luoghi, di un mondo trascorso. La Val Pogallo e le alture verbanesi sono la scena in cui lo sradicato Antonio e sua madre Sofia interpretano una vita fatta di stenti, qualche slancio e poche gioie. Un mondo di vinti, popolato da personaggi indimenticabili, attraverso i quali il Chiovini saggista e ancor più il narratore ricostruiscono un secolo nella vita di Vallintrasca, in una grande prova di quella che Braudel avrebbe chiamato geostoria. Le vite minime di persone vissute in una periferia della storia – Antonio, il “muntagnìn” costretto a lasciare la valle; e la scalza Sofia, morta, come tante, cadendo da una balza di roccia con in spalla la gerla carica di fieno – diventano il paradigma di una condizione umana. Emblemi di un mondo rude e povero, “in cui tuttavia erano ravvisabili e riconosciuti vivi gli obiettivi, il senso della vita, il suo fine; l’obiettivo della sopravvivenza e quello della continuità della stirpe; il senso della vita sorretto dalla memoria di specie; il fine del bene operare che faceva perno sulla speranza”.
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