“Decisi anch’io di rientrare o, meglio, fu deciso che avrei dovuto venire in Italia. La partenza fu organizzata; ero munito di regolare valigia a doppio fondo preparata dal valigiaio Valsesia, con dentro libri stampati su carta di riso: bellissima!” “Ho un ricordo preciso di quel tipo di carta, ho visto poi che venne usata, ad esempio, per fare il “Peking Review”. Ed erano documenti “importantissimi”! Figurarsi: la storia del PCUS, il “Che fare?”, “Stato e rivoluzione”, in italiano. Sembravano cose preziosissime. E così parto… Viaggiammo non so quanto tempo e arrivammo, verso mezzogiorno, a Bardonecchia: qui il convoglio si è bloccato perché avevano bombardato Torino. Era l’agosto del ’43. Poi, verso sera, finalmente ripresi il viaggio. In uno scompartimento c’erano due ufficiali italiani: chiesi se potevo sedermi: “Certo, figurarsi”. Per me anche quello era un segno, ci fossero stati due ufficiali tedeschi non si sarebbe seduto nessun altro. Loro, invece, parlavano tranquillamente della guerra. E mi arrabbiai anche, dentro di me naturalmente: non capivano assolutamente cosa stesse succedendo. Parlavano della guerra, ma non avevano notizie esatte. Solo avessero ascoltato Radio Londra, avrebbero saputo, come tutti gli altri, che gli alleati erano già in Calabria o giù di lì. Pensavano di poter respingere gli alleati come se niente fosse. Non si rendevano conto dell’imminente fine. Il fascismo aveva ridotto le loro intelligenze… oppure era opportunismo, non so. Questo però era il clima che trovai in Italia: venti giorni prima della disfatta, questi pensavano ancora di vincere la guerra. Incredibile!”
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